Sguardi interrotti

 

Cercare se stessi attraverso lo sguardo: negli altri, nelle immagini pubblicitarie, nelle cose di tutti i giorni, allo specchio. Se la vita è un percorso (auto)conoscitivo, Enrica Passoni lo intraprende fedelmente attraverso l’arte, passo dopo passo, affinando la tecnica, trovando nuove strategie per scendere nel pozzo della sua stessa identità.

L’intersezione tra arte e vita, per Enrica, è evidente non appena la si conosce. Questo aspetto agisce con un effetto magnetico verso chi è dotato di una sensibilità simile: donna riservata, sa attirare a sé, instaurando legami che hanno a che fare con le affinità elettive, più che con l’esigenza. Arte e vita, dunque. La sua casa, non stupisce, è anche il suo studio, o forse, potremmo dire, il suo studio è la sua casa: un arioso appartamento popolato da dipinti, oggetti-trovati, stoffe, ritagli, sculture e piccoli e grandi mobiles[1] che oscillano al primo colpo di vento. Le opere, spesso antropomorfe, convivono con gli oggetti di casa: c’è una naturale armonia nel loro accostamento; non è accumulo – Enrica è precisa ed estremamente ordinata nella sua gestione quotidiana – ma dare vita alle cose, mettendole in dialogo.

Il dialogo, d’altra parte, è una componente fondamentale del suo lavoro: nel 2015 l’artista ha occupato una chiesetta sconsacrata con un’installazione dal provocatorio titolo Siamo in grado di ascoltare?[2], mettendo in luce gli ostacoli comunicativi tra i diversi individui.

E ancora, nel 1999 ha pubblicato un libriccino di aforismi intitolato Gli altri[3], dove lo scambio con l’alterità è sempre difficoltoso, ma imprescindibile. Nel mondo iperconnesso, qual è la qualità della nostra connessione? Moltitudine e solitudine [4] paiono le facce della stessa medaglia, imprescindibili l’una all’altra.

 

Con questa mostra veneziana, Enrica sviluppa la riflessione sulle relazioni aggiungendo un elemento ulteriore, quello dello sguardo, inteso come dimensione visiva dell’ascolto.

Per le opere esposte, tutte senza titolo, si serve di fotografie scattate da lei stessa durante i suoi numerosi viaggi o ritagliate da giornali e riviste.

A questa prima fase di ricerca, si aggiunge il processo di postproduzione eseguito con Photoshop: attraverso la cancellazione dei tratti somatici dei suoi soggetti, la sfocatura dei contorni, l’uniformazione del piano foto-pittorico con tinte monocromatiche, è ottenuta un’immagine appiattita non solo dal punto di vista formale, ma anche – e soprattutto – identitario. Chi sono queste persone? Il riconoscimento è negato, da parte dell’osservatore ma anche dell’osservato. L’identità, in altre parole, è una conquista fragile, un impervio percorso di definizione che non si può esaurire in un rapporto univoco, come quello tra i tratti del volto e il carattere di un individuo. Sono poi spesso aggiunti inserti in tessuto o decorazioni in frottage, ulteriore mascheramento dell’identità e suo livellamento in chiave puramente decorativa. È un inganno, una finta giocosità volutamente in dissonanza con il dolore individuale che queste opere sembrano racchiudere.

Le radici del disagio, come dicevamo, per Enrica sono da rintracciarsi nello scambio mancato con l’altro. I due ritratti di famiglia posti alle estremità dello spazio espositivo sono una chiara allusione alle dinamiche famigliari: i padri e i figli maschi scrutano fieri, le bambine invece sono oscurate, “contorni umani”, secondo le parole della stessa autrice, immagini – o, meglio, simulacri – della loro stessa mancanza. Una prospettiva decisamente lacaniana che colloca il discorso ad un sottile livello psicanalitico che ha a che fare con il femminile, l’assenza del fallo e dunque il radicamento ontologico in questa assenza.

La sua ricerca, d’altra parte, è intimamente autobiografica, e due lavori sono emblematici in tal senso. Il primo è l’unico ritratto di donna con i connotati in evidenza, esattamente tagliato a metà, sfasato, interrotto, fuori fase come chi non riesce non solo a riconoscersi appieno, ma a dirsi, a trovare una propria narrazione.

Il secondo è il ciclo del corpo, dove sono immortalati dettagli di membra – collo, spalla, clavicole – e di vestiti in pizzo, sottili spalline che fanno pensare alla biancheria intima. La visione d’insieme però è inaccessibile, non possiamo conoscere l’aspetto di questa persona, e non siamo sicuri si tratti, per altro, di una persona sola: possiamo solo immaginarla, tentando di dare forma all’invisibile.

Ancora, è proprio Jaques Lacan ad aver parlato della fantasia del “corpo in pezzi”[5]: nella prima infanzia conosciamo il nostro stesso corpo come insieme di membra e ci scopriamo unitari – l’Uno lacaniano – solo quando guardiamo per la prima volta il nostro riflesso nello specchio. Si tratta di una scoperta rivoluzionaria, quella che avviene durante lo “stadio dello specchio” – secondo Lacan tra i sei e i diciotto mesi – alla base dell’identità dell’individuo adulto[6]. Alla fine di tale fase il bambino imparerà a parlare superando, attraverso il linguaggio, la sua impossibilità a dire e a dirsi. Chi rimane intrappolato in questa fase non saprà riconoscersi appieno e, appunto, trovare una propria voce.

La disgregazione avviene dunque all’interno della nostra auto percezione, ma avviene anche per via dello sguardo altrui. Laura Mulvey ha portato il discorso psicanalico all’interno dello studio del cinema classico, nel suo intramontabile Visual Pleasure and Narrative Cinema[7], affermando che nelle pellicole hollywoodiane, assunte come paradigma dello sguardo occidentale, le donne sono oggetto e non soggetto della visione, feticizzate, frammentate dallo sguardo del maschio desiderante. I ritratti muti di Passoni parlano proprio di questa feticizzazione, di un soggetto che non può definirsi, diviene oggetto degli occhi di chi guarda, ma sfugge a qualsiasi tipo di appropriazione. È un soggetto irraggiungibile e sfuggente, che nella fuga vede la sua condanna ma anche la sua ancora di salvezza.

In fondo alla sala è posto provocatoriamente uno specchio dove lo spettatore può osservarsi all’interno della mostra di Enrica Passoni, proiettato all’interno del suo discorso: impossibile, strozzato, spezzato, ma indomito. Guardando quella superficie riflettente, l’artista ci chiede: e noi siamo in grado di vederci per davvero? L’interrogativo rimane aperto alle risposte di ognuno. La chiave, forse, risiede nel non smettere mai di cercare, di creare connessioni, legami fatti di parole e di sguardi, necessari seppure interrotti.

 

Bianca Trevisan

 



[1] Il riferimento è alle sculture cinetiche di Alexander Calder, che devono il loro movimento proprio allo spostamento delle correnti d’aria nei diversi ambienti.

[2] Siamo in grado di ascoltare?, Antica chiesetta di Cascina del Bruno, Arcore (MB), 12-13 settembre 2015.

[3] Enrica Passoni, Gli altri, Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, Torino 1999.

[4] Come ripete Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica) nel testo della sua canzone del 2017 intitolata, appunto, Iperconnessi.

[5] Jaques Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo 1975-1976, testo stabilito da Jaques-Alain Miller, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 2006. Si veda anche il relativo Jaques-Alain Miller, Pezzi staccati. Introduzione al seminario XXIII. «Il sinthomo», Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 2006.

[6] Jaques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974.

[7] Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, pubblicato originariamente in “Screen”, 16.3, autunno 1975, pp. 8-18. La versione tradotta in italiano è pubblicata nella raccolta Id., Cinema e piacere visivo, a cura di Veronica Pravadelli, Bulzoni, Roma 2013.